27 marzo 1848: il Te Deum per la cacciata degli austriaci da Milano

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di Matteo Caponi (Scuola Normale Superiore di Pisa)

 

[Le parole evidenziate nel testo rinviano a link esterni elencati in fondo alla pagina]

 

 

 

Deliberazioni del Magistrato dei Priori, adunanza XIV del 26 marzo 1848; in ASCFi, Comunità di Firenze, Deliberazioni magistrali e consiliari, «Giornaletto delle deliberazioni magistrali dell’anno 1848», CA 56, pp. 145-146 (su gentile concessione dell’Archivio Storico del Comune di Firenze)

Lunedì 27 marzo 1848, alle 5 del pomeriggio, l’arcivescovo di Firenze Ferdinando Minucci intonò un grandioso Te Deum in cattedrale, per celebrare la cacciata degli austriaci da Milano avvenuta a seguito delle Cinque giornate. L’inno ambrosiano era per tradizione destinato al pubblico rendimento di grazie in occasione di eventi eccezionali, quali importanti atti sovrani e vittorie militari; le autorità politiche napoleoniche ne avevano fatto richiesta abitualmente. Non era inoltre la prima volta che esso risuonava a sostegno del moto nazionale italiano: alcuni precedenti immediati erano stati i Te Deum cantati per la concessione degli statuti da parte di Carlo Alberto, Leopoldo II e Pio IX (rispettivamente l’11 febbraio, il 17 febbraio e il 18 marzo).

 

 

Durante la seduta del Magistrato comunitativo del 26 marzo, il gonfaloniere Bettino Ricasoli, accogliendo la sollecitazione del ministro dell’Interno Cosimo Ridolfi a solennizzare l’eroico episodio, propose che il giorno dopo Firenze venisse illuminata a festa e che i cittadini, i ministri di Stato, i priori e la Guardia civica si raccogliessero in preghiera nella Metropolitana, per riconoscere «la grandezza dello stupendo fatto Milanese», «esser pronti a cooperare nella Santa Crociata contro lo Straniero» e «dare un pubblico segno della fraterna onoranza agli Italiani di Milano». L’insurrezione anti-austriaca, si leggeva nel proclama di Ricasoli affisso per le strade e pubblicato sul giornale «La Patria» (espressione dei moderati toscani) – proclama anch’esso qui a fianco proposto – segnava «il primo giorno dell’Era Nuova della Nazionalità Italiana». Il rito assumeva dunque un preciso significato politico: il popolo era esortato a manifestare piena comunanza di sentimenti, di intenti e di armi con la causa indipendentista.

 

 

Deliberazioni del Magistrato dei Priori, adunanza XIV del 26 marzo 1848; in ASCFi, Comunità di Firenze, Deliberazioni magistrali e consiliari, «Giornaletto delle deliberazioni magistrali dell’anno 1848», CA 56, pp. 145-146 (su gentile concessione dell’Archivio Storico del Comune di Firenze)

Le parole del barone, leader del cattolicesimo liberale fiorentino, rispecchiavano l’entusiasmo bellicista alimentato dalla retorica neoguelfa, che raffigurava la campagna intrapresa dal regno di Sardegna come un conflitto voluto da Dio e benedetto dal papa. Quest’appello alla mobilitazione marziale non costituiva un’astratta perorazione di circostanza; Leopoldo II, pressato dal ceto dirigente liberale e dall’opinione pubblica, aveva già autorizzato l’arruolamento dei volontari e il 29 avrebbe formalmente dichiarato guerra all’impero asburgico. Riguardo ai contenuti da attribuire alla funzione religiosa, emergeva tuttavia uno scarto tra le cautele del governo granducale e l’acceso patriottismo dei notabili moderati, decisi ad affermare una propria autonomia d’iniziativa. Non a caso, Ridolfi espresse a Ricasoli un netto disappunto per la formulazione del proclama, poiché il gonfaloniere aveva tralasciato di «dir chiaramente» che la cerimonia rispondeva agli «ordini del Granduca». D’altra parte, su «La Patria» del 27 marzo, Vincenzo Salvagnoli polemizzò apertamente con la «Gazzetta di Firenze» (organo ufficiale dello Stato lorenese), che aveva ricondotto il Te Deum al «cessato spargimento di sangue in Milano». Il patriota empolese precisava che la cerimonia non intendeva ringraziare Dio per il ristabilimento dell’ordine, ma per il debutto vittorioso della lotta per liberare l’Italia dai «barbari» oppressori. Non era insomma una liturgia di pace, bensì una liturgia di guerra (una guerra definita «all’ultimo sangue»).

 

 

 

Nel suo diario Luigi Passerini de’ Rilli descrisse il 27 marzo come uno straordinario momento di euforia collettiva. «Un insolito brio regnava in tutti gli animi» ed era presente «un numero incredibile di bandiere», tra le quali molte del clero, «recate dai seminaristi e da altri ecclesiastici». Stando alla cronaca de «La Patria», si trattò della festa nazionale fino ad allora più riuscita, dal punto di vista sia della partecipazione («la gran chiesa d’Arnolfo era piena zeppa di gente di ogni condizione») sia del coinvolgimento emotivo della popolazione. Dopo la celebrazione, a dispetto della pioggia battente, una gran moltitudine di persone si recò in corteo verso piazza del Granduca (l’odierna piazza della Signoria), per assistere al momento più atteso della giornata: il Discorso ai toscani di Giovanni Berchet sotto le logge degli Uffizi. In realtà il poeta, che allo scoppio delle Cinque giornate si trovava a Firenze, fu sopraffatto dalla commozione ed incaricò Giuseppe Massari di leggere il testo al suo posto. L’oratore, interrotto più volte da applausi e grida di giubilo, esaltò il «mirabile risorgimento» al quale ciascuno dei «popoli d’Italia» aveva offerto un originale contributo: Roma l’amnistia e il verbo cristiano, la Toscana le riforme, il Regno delle Due Sicilie la prima costituzione, il Piemonte «il forte esercito tutelatore» e Milano l’indipendenza, senza cui nessun’altra conquista aveva valore. Adesso spettava a tutti gli italiani, in uno spirito di assoluta concordia, consolidare questo «stupendo edificio», impugnando le armi per cancellare qualsiasi traccia degli austriaci dal suolo patrio.

 

 

 

 

 

Proclama del Gonfaloniere di Firenze Bettino Ricasoli, 26 marzo 1848; in ASCFi, Comunità di Firenze, Affari comunitativi, Affari sfogati, «Filza di lettere, affari, decreti al tempo del gonfaloniere Bettino Ricasoli», CA 532, n. reg. 1848, 245 (su gentile concessione dell’Archivio Storico del Comune di Firenze)

«Afferrate questa bella occasione fattavi miracolosamente da Dio, e salvate in eterno dalla dominazione, e dalla presenza dello Straniero, ogni campo, ogni villa dove si parla italiano. Là, nella gran valle del Po, vi chiama la Patria. Guerra, guerra agli Austriaci è il solo pensiero, il solo bisogno del momento. Là, nella gran valle del Po, è d’uopo che si componga un grande Stato, saldo, compatto, il quale serva d’antemurale a qualsiasi invasione straniera, da qualunque parte essa venga. Così l’Italia tutta sarà salva e secura per sempre; e a farla salva e secura vi gioverà gloriarvi, o Toscani, d’aver contribuito anche voi.

 

 

 

Viva l’Italia! viva la cacciata degli Austriaci!» (da «La Patria» del 28 marzo 1848)

 

 

L’indomani il Magistrato deliberò di conferire la cittadinanza onoraria ai membri del governo provvisorio di Lombardia e di apporre nella loggia della Signoria lo stemma di Milano con un’iscrizione commemorativa, decretando «festa patria» il giorno in cui esso sarebbe stato collocato. Scavalcando l’autorità del granduca, un’apposita deputazione composta da Salvagnoli, Luigi Sabatelli e Vincenzo Ricasoli fu incaricata di consegnare a Gabrio Casati una copia del provvedimento e il diploma di cittadinanza. I tre delegati, ricalcando il linguaggio nazional-patriottico del discorso di Berchet, si appellarono alla comune vendetta contro i secolari nemici dell’Italia.

 

Tuttavia, a causa del tormentato prosieguo delle vicende risorgimentali, la lapide «ad onore dei milanesi/ che nel marzo del MDCCCXLVIII/ dopo cinque giorni di battaglia/ cacciati gli austriaci/ diedero il segno della prima guerra d’indipendenza» sarebbe stata realizzata soltanto nel contesto del neonato Stato unitario (1865), per volontà del Comune di Firenze (l’epigrafe fu dettata da Marco Tabarrini, ex-combattente volontario nel 1848). L’opera sarebbe stata infine rimossa, assieme ad altre, dopo la seconda guerra mondiale.

 

 

Bibliografia di riferimento

 

  • A.M. Banti, Nobili, Risorgimento e formazione discorsiva nazional-patriottica, in A. Ciampani, L. Klinkhammer (a cura di), La ricerca tedesca sul Risorgimento italiano. Temi e prospettive, Atti del convegno (Roma 2001), supplemento a «Rassegna storica del Risorgimento», LXXXVIII (2001), n. 4, pp. 205-212
  • F. Bigazzi, Iscrizioni e memorie della Città di Firenze, Firenze, Pei Tipi dell’Arte della Stampa, 1866
  • Comune di Firenze, Atti e Ricordi relativi alle Cinque Giornate di Milano. 1898, Firenze, Coi tipi della ditta Galletti e Cocci, 1898
  • E. Francia, 1848. La rivoluzione del Risorgimento, Bologna, Il Mulino, 2012
  • F. Martini (a cura di), Il Quarantotto in Toscana. Diario inedito del conte Luigi Passerini de’ Rilli, Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1918
  • M. Nobili, S. Camerani (a cura di), Carteggi di Bettino Ricasoli, III, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1945

 

Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato il 27 marzo 2014)

 

 

 

 

 


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