10 giugno 1304: il fuoco distrugge il cuore di Firenze

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di Maria Pia Contessa, Portale “Storia di Firenze”)

 

[Le parole evidenziate nel testo rinviano a link esterni elencati in fondo alla pagina]

 

 

La città devastata dal fuoco in una illustrazione della Nuova Cronica di Giovanni Villani (Bibl. Vaticana, Ms. Chigiano LVII 296, XIV sec.)

Fra le catastrofi che colpirono Firenze in epoca medievale l’incendio scoppiato nella tarda primavera del 1304 occupa una posizione di risalto nelle fonti dell’epoca, in quanto percepito dai contemporanei come uno dei momenti più drammatici degli scontri fra fazioni che stavano causando la rovina della città. Narra, infatti, Giovanni Villani che fu il priore di San Pier Scheraggio, Neri degli Abati, ad appiccare il fuoco dapprima alle case dei suoi consorti, in Orsanmichele, e poi dei Caponsacchi, fra Calimala e il Mercato Vecchio. Favorite dal vento, le fiamme si propagarono subito agli edifici adiacenti e in poco tempo distrussero la loggia del grano e le case ad essa vicine, la via di Calimala, l’area circostante il Mercato Nuovo, Por Santa Maria fino al ponte sull’Arno, nonché la zona retrostante la chiesa di San Pier Scheraggio quasi fino al fiume. Andò in rovina, insomma, il nucleo più vitale della città mercantile («arse tutto il midollo, e tuorlo, e cari luoghi della città di Firenze») con conseguenze pesantissime. Il Villani riporta la perdita di più di millesettecento edifici, mentre Dino Compagni aumenta il numero a più di millenovecento, cifre certamente arrotondate per eccesso ma comunque significative del dissesto, non solo patrimoniale, subito da svariate famiglie che dal commercio su larga scala traevano ricchezza e prestigio. A questo proposito sono eloquenti, ancora una volta, le parole del Villani: «Il danno d’arnesi, tesauri, e mercatantie fu infinito, però che in que’ luoghi era quasi tutta la mercatantia e cose care di Firenze, e quella che non ardea, isgombrandosi, era rubata da’ malandrini, combattendosi tuttora la città in più parti, onde molte compagnie, e schiatte, e famiglie furono diserte, e vennono in povertade per la detta arsione e ruberia».

 

 

Impiego del fuoco per uso domestico (Theatrum Sanitatis, Roma, Bibl. Casanatense, Ms. 4182, XIV sec.)

Anche quando non erano di origine dolosa e non raggiungevano simili proporzioni, gli incendi rappresentavano una preoccupazione costante per gli abitanti delle città medievali per motivi facilmente intuibili: l’impiego del fuoco in diversi mestieri e in alcune attività quotidiane, la stretta vicinanza di edifici realizzati per la maggior parte in legno, la diffusa presenza di altri materiali altamente infiammabili (si pensi, ad esempio, alle granaglie e i panni di lana accatastati nei fondachi) costituivano una combinazione potenzialmente micidiale.

 

Fu soprattutto nel corso del XIV secolo che in molti centri urbani le massime autorità politiche, preoccupate dalla frequenza dei roghi e dalle ricadute negative sull’economia locale, cominciarono a prendere provvedimenti più incisivi rispetto agli sporadiche e superficiali misure precedenti che quasi non hanno lasciato tracce nelle fonti. Le prime deliberazioni trecentesche miravano soprattutto alla prevenzione, sia regolando le pratiche edilizie (per esempio con il divieto di usare i materiali più facilmente combustibili), sia circoscrivendo in determinate aree cittadine i mestieri che si servivano del fuoco e vietando l’esercizio di altre attività lavorative dopo il tramonto, quando la necessità di ricorrere all’illuminazione artificiale aumentava il pericolo di un disastro.

 

Stemma dell’Arte dei maestri di pietra e di legname sulla facciata della chiesa di Orsanmichele (Luca della Robbia, 1440-’45 ca)

A Firenze ritroviamo alcune di queste prescrizioni nello statuto del Capitano del Popolo del 1325, nel quale furono inserite anche sommarie disposizioni in materia di intervento – affidato ora a squadre “specializzate” composte da facchini e da maestri di pietra e legname – risalenti ad almeno una decina di anni addietro anche se, a quanto pare, la volontà di domare il fuoco in maniera organizzata e sotto il diretto controllo dei pubblici poteri aveva trovato spazio nei provvedimenti legislativi del Comune già alla fine del Duecento. Si trattava di una innovazione importante, visto che fino ad allora lo spegnimento degli incendi era lasciato all’iniziativa dei privati. Come ci ha ricordato il cronista, la confusione che si verificava in simili circostanze offriva troppo facilmente l’opportunità di commettere ruberie, atti di ritorsione nei confronti della fazione nemica, o addirittura di tentare il rovesciamento del governo in carica. Avocando a sé la supervisione delle operazioni di soccorso i rettori cittadini miravano certamente a contrastare le distruzioni intenzionali, più frequenti in quel periodo di grande conflittualità interna, ma anche a prevenire eventuali attentati alla stabilità politica del Comune.

 

 

Impiego del fuoco per uso domestico (Theatrum Sanitatis, Roma, Bibl. Casanatense, Ms. 4182, XIV sec.)

Per quanto ancora piuttosto generica, la normativa sugli incendi degli inizi del Trecento rappresentò dunque il primo tentativo ben individuabile, da parte delle supreme autorità fiorentine, di gestire direttamente e in maniera sistematica un fenomeno che poteva avere ripercussioni così vaste e virtualmente devastanti. In pochi decenni la struttura e le mansioni di queste prime squadre di pompieri furono definite in maniera sempre più articolata, tanto che verso la metà degli anni Quaranta del secolo fu giuridicamente riconosciuta l’esistenza di un Ufficio del Fuoco che rispondeva del suo operato ai Gonfalonieri e che nei documenti coevi appare già ben organizzato, con un gruppo di guardie attrezzate e retribuite assegnato ad ogni quartiere cittadino.

 

 

Lettura di approfondimento

 

M.P. Contessa, L’Ufficio del Fuoco nella Firenze del Trecento, Firenze, Le Lettere, 2000

 

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