Dicembre 1864: una legge per Firenze Capitale

Immagine di copertina:

[Dicembre 1864: Ricasoli tra Firenze Capitale, Brolio ... e Roma], tratta da Strenna Garibaldi del giornale Il Lampione pel 1864, Firenze, Tipografia, Grazzini, Giannini e C., 1864.



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di Antonio Chiavistelli (Università di Torino)

[Le parole evidenziate nel testo rinviano a link esterni elencati in fondo alla pagina]

 

Immagine di copertina:

[Dicembre 1864: Ricasoli tra Firenze Capitale, Brolio … e Roma], tratta da Strenna Garibaldi del giornale Il Lampione pel 1864, Firenze, Tipografia, Grazzini, Giannini e C., 1864. L’immagine satirica pare alludere alla discussione sul trasferimento della capitale a Firenze e ai conseguenti timori di un procrastinamento dello spostamento della capitale a Roma. La scena, sullo sfondo di Firenze capitale (tricolore sul campanile di Giotto), ritrae Ricasoli intento a curare i vigneti della sua tenuta di Brolio dove si sarebbe ritirato per il mancato raggiungimento di Roma. Nel volume l’immagine è accompagnata dalla strofa: «Persa la strada ormai del Campidoglio, il nostro Betto se n’è ito a Broglio; i fiaschi di Torino lo fan pensare al vino!»

 

 

Albert Emil Kirchner, Veduta di Firenze in una giornata di sole, 1865. Collezione privata ?

«Il Ministero accetta la convenzione colla Francia per lo sgombro delle truppe francesi dal territorio pontificio colla condizione del trasporto della capitale ad altra sede. Con tale proposito, ed a questo fine, sottoporrà alle Camere, al primo riaprirsi di esse, un progetto di legge»: così, ad appena una settimana di distanza dalle dimissioni del governo Minghetti, riportando un dispaccio ministeriale del giorno precedente, il giornale fiorentino «La Nazione» del 1° ottobre 1864 comunicava l’intenzione del nuovo governo presieduto da Alfonso La Marmora di procedere speditamente verso la soluzione della ‘crisi’ politica apertasi poche settimane prima a seguito della firma di un accordo con la Francia per l’avvio della risoluzione della cosiddetta «questione romana». Un accordo, che prevedeva come condizione sine qua non lo spostamento della capitale da Torino, di cui si parlava da molti mesi e di cui i fiorentini avevano potuto seguire direttamente sul foglio cittadino le fasi, dalle prime indiscrezioni della primavera del 1864 fino alla firma il 15 settembre. Di più, accordo che – al di là degli importantissimi risvolti diplomatici e di quelli immediatamente legati al processo di laicizzazione del giovane Stato italiano – interessava direttamente i fiorentini perché quasi da subito la città identificata come possibile sede della nuova capitale era appunto Firenze. D’altronde, dopo le polemiche tra i diversi partiti e le violente dimostrazioni di piazza avvenute a Torino poche settimane prima che avevano provocato la caduta del governo Minghetti, ora la questione doveva passare all’attenzione del Parlamento.

 

Lo stesso ministro degli Interni Giovanni Lanza manifestava «il convincimento che ragioni di alta convenienza politica e di stretta equità impongano al Governo il debito di proporre al Parlamento» gli atti relativi alla convenzione di settembre, dicendosi «certo ad un tempo che le popolazioni italiane penetrate della gravità e difficoltà della situazione attenderanno con piena fiducia i voti del Parlamento e sapranno serbare quella concordia di voleri e quella fede inalterata nella Corona che […] debbono essere ancora l’arra più sicura del pieno compimento dei destini della Nazione» (Dispaccio Ministero degli Interni, 30 settembre 1864, ore 5.41 pom.). Concordia che, sempre il 1° ottobre, anche il foglio di Firenze rilanciava esaltandola come testimonianza di quel «sentimento nazionale […] [più volte] manifestato in tutte le frazioni del partito liberale». Concordia che serviva sì alla causa nazionale, ma che nella contingenza «della crisi presente, fra le più gravi, se non la più grave cui sia stata dal 1859 sottoposta l’Italia», era utile anche alla causa fiorentina; infatti intesa tra le parti e «fede nel Re e negli uomini di Stato che sono stati chiamati al governo della cosa pubblica» erano – secondo il giornale – «i soli mezzi valevoli a fare superare gli ostacoli» alla pacifica soluzione del trasferimento della capitale a Firenze.

D’altronde, l’approdo in parlamento della ‘questione-capitale’, se da un lato era percepito dai fiorentini come un atto richiesto dal sistema rappresentativo, dall’altro non mancava di suscitare apprensioni per l’eventuale ritorno di antiche rivalità municipali. Timori che il professore pisano e deputato Giovan Battista Giorgini, già il 1° ottobre, esprimeva a Bettino Ricasoli: «nella Gazzetta Ufficiale che ricevo stamane ho letto il dispaccio del nuovo ministero e […] un tristo pensiero mi è passato per il capo. In quel manifesto si annunzia come sia intenzione del ministero proporre e fare accettare dalla Camera la convenzione colla Francia, compresa la clausola relativa al trasporto della capitale in altra sede […]. Ora la convenzione colla Francia ci obbliga […] a trasportare la capitale in un’altra sede, ma non ci obbliga a trasportarla piuttosto a Firenze che a Napoli o altrove». Rimettendo realmente la parola alle Camere e non considerando, lì, le preferenze già espresse a favore di Firenze, egli temeva che «i subalpini votando sempre contro, faranno votare Napoli contro Firenze e Firenze contro Napoli, così che né l’una né l’altra città potranno riunire la maggioranza, si resterà dove siamo e la convenzione andrà a monte» per concludere: «questo piano può non riuscire; ma non posso liberarmi dal sospetto che sia il piano del Sella e del Lanza [e che] il Lamarmora e gli altri potrebbero cadere nel laccio» (citazioni tratte da B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 2, Roma, 2011, p. 23). I sospetti di Giorgini, del resto, non erano infondati e, infatti, ancora alto rimaneva tra i torinesi il risentimento nei confronti dei toscani ritenuti responsabili di aver perorato il trasferimento della capitale da Torino. Celestino Bianchi – deputato e redattore de «La Nazione» – proprio da Torino così lo confermava al sodale Ricasoli: «pare che si faccia un poco d’intrigo per suscitare gli spiriti municipali di Napoli. Si dice che il Lanza e il Sella vogliano rimettere in questione il luogo scelto per sede novella del governo, e tirar fuori Napoli in opposizione di Firenze. Il Capriolo ha scritto al duca di San Donato a Napoli dicendogli che piemontesi e napoletani dovevano in questa circostanza far lega insieme: che se la capitale doveva togliersi da Torino, ragion voleva che almeno non in altro luogo si trasferisse che a Napoli» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 2, p. 30).

 

Giorgio Pallavicino Trivulzio, La Convenzione del 15 settembre 1864: discorso del senatore Giorgio Pallavicino Trivulzio pronunciato nella tornata del 6 dicembre 1864, con appendice, Torino, Tip. Cerutti e Derossi, 1864 (Biblioteca della Camera dei deputati, M. 1023)

Il passaggio in parlamento, nonostante i timori dei fiorentini, non era, però, aggirabile e anche il foglio cittadino – riproponendo, il 9 ottobre, un brano del giornale «L’Opinione» di Torino – confermava ai suoi lettori l’opportunità che la questione sulla sede della capitale fosse sottoposta al giudizio dei deputati.

 

Nonostante tutto, però, a Firenze il sentimento più diffuso nei confronti del trasferimento oltre alla soddisfazione per il passo in avanti verso la soluzione della questione romana comprendeva anche il rispetto per i ruoli istituzionali e soprattutto per il progetto liberale finalizzato alla realizzazione del disegno cavouriano di Roma (e soltanto Roma) capitale d’Italia.

Emblematiche di questo sentimento le parole del barone Ricasoli che, all’amico e redattore de «La Nazione» Piero Puccioni, il 5 ottobre così scriveva: «noi percorriamo la fase politica interna la più terribile che ci sia occorsa dal ‘59 in poi […] se ne usciremo trionfanti noi italiani dovremo evitare un altro demonio: la superbia […]. Firenze in questa occasione terribile avrà una bella pagina, come già ne aveva avute, e tanto più prosegua, che invero stimo che sia una vera disgrazia per essa l’essere stimata idonea a sede provvisoria del governo italiano, e le occorrerà un gran senno, una perfetta cognizione delle sue nuove condizioni onde evitare crudeli e svariati disinganni […] mostrando – e ne ha ben ragione – che Firenze è presta a consentire che la sede del governo […] sia trasportata dove gl’interessi d’Italia richieggono» con la molto significativa precisazione: «io vorrei che non si dicesse capitale, vorrei anzi che si dicesse che Italia non ha capitale, perché solo Roma può esser sua capitale […] [e stimo] che giudice competente ed unico è il Re, e il parlamento […] che deve votarne la spesa» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 2, pp. 39-41).

E, difatti, tra timori, sospetti e rancori non del tutto sopiti – nell’opuscolo che molto circolò, Intorno alla convenzione Italo-Franca. Pensieri (Torino, 22 ottobre 1864), i lemmi «fiorentino» e «fiorentinismo» erano usati in senso spregiativo per accusare di parzialità il cessato ministero Minghetti – il 24 ottobre la questione di Firenze capitale arrivò in parlamento.

I fiorentini potevano apprenderne la notizia dal foglio cittadino del 26 ottobre che pubblicava integralmente la relazione con cui il ministro Lanza due giorni prima aveva presentato alla Camera il «progetto di legge per il trasferimento della Capitale del Regno a Firenze». Il ministro dopo aver riconosciuto le ragioni dei possibili oppositori notava efficacemente che i sacrifici conseguenti al trasferimento erano però finalizzati «all’allontanamento di truppe forestiere dal suolo italiano e alla preparazione di uno scioglimento conveniente e definitivo della questione romana», con positivi effetti sull’indipendenza e sull’unità nazionale. Principi, questi ultimi, in nome dei quali, il ministero tutto chiedeva alla Camera la rapida approvazione del progetto per lo spostamento della capitale a Firenze. Città che «il Ministero presente ha considerato in quelle condizioni […] favorevoli [che] non si avrebbero a pari grado in altra italiana metropoli».

Mata (Adolfo Matarelli), Due città di questo mondo che perdono la capitale, litografia, tratta da «Il Lampione». L’immagine propone un ‘crudo’ parallelo tra due città capitali: Firenze-Stenterello, che il 27 aprile 1859 è ben felice di perdere il rango di capitale granducale a favore di Torino, che rappresentava allora l’avvio del processo unitario, e Torino-Gianduia, che per effetto della convenzione italo-francese perdeva a sua volta, e con grande dispiacere, il rango di capitale a favore di Firenze (capitale del Regno dal 1865 al 1870).

Il ministero La Marmora, insomma, conforme agli impegni presi con il sovrano, raccoglieva il testimone del predecessore Minghetti e si faceva sostenitore della ‘causa fiorentina’ sebbene le spese non fossero lievi: «7.000.000 di lire per gli anni 1864 e 1865 che il Ministero chiede[va] alla Camera di mettere a sua disposizione». Del resto, in apertura dei lavori, lo stesso ministro aveva avvertito i deputati che «appena votata la legge, sarà cura del Ministero […] propor[re] un complesso di provvedimenti per rialzare il credito pubblico, per venire in soccorso delle nostre finanze, e provvedere ai bisogni dell’erario» così gravato per quel traslocamento (Atti parlamentari, VIII legislatura, 24 ottobre 1864, p. 6399).

Nonostante le buone intenzioni del ministero e l’urgenza richiesta, la discussione alla Camera si protrasse a lungo – già nella tornata del 10 novembre il deputato Pier Silvestro Leopardi, aveva sollevato una mozione «sul tempo che perdiamo» (Atti Parlamentari, VIII legislatura, 10 novembre, p. 6529) – occupando la maggior parte delle sedute dalla tornata del 24 ottobre a quella del 19 novembre 1864, quando, finalmente, con 317 voti a favore, 70 voti contrari e 2 astenuti fu approvato il progetto di legge che esplicitamente riconosceva lo spostamento della capitale a Firenze. Per quanto le direttive ricasoliane invitassero la redazione alla massima pacatezza per non irritare la suscettibilità dei torinesi, «La Nazione» del 21 novembre commentando «il gran fatto del giorno» ribadiva con toni entusiasti che «il trasferimento della capitale risponde[va] alla soddisfazione di un bisogno universalmente avvertito» testimoniato dalla confluenza «nel voto di uomini di sì opposti principii».

Ma – naturalmente – la vicenda non era ancora conclusa e prima che Firenze potesse realmente considerarsi capitale del Regno occorreva anche l’approvazione dei senatori i quali già il 22 novembre furono chiamati a discutere il «progetto di legge per il trasferimento della Capitale a Firenze». Anche in Senato il dibattito fu molto acceso; commentando l’andamento delle sedute, il senatore Luigi Torelli confermava all’amico Ricasoli che «vi [era] non poco accanimento nel venerando Senato» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 2, p. 106). I temi richiamati erano – come già alla Camera – molto vari; in generale si concentravano sull’aspetto diplomatico, interpretando il trasferimento come una imposizione giunta da una potenza straniera, e sull’aspetto politico, paventando che Firenze divenisse sede definitiva e pregiudicando il progetto di Roma capitale. Anche al Senato la discussione si protrasse per numerose tornate; sempre Torelli il 7 dicembre scriveva a Ricasoli: «I fogli pubblici ti avranno appreso quanto viva ferve sempre la lotta in Senato; siamo al 9° giorno e ne vedremo 11 e probabilmente non finirà che venerdì o domenica 10; certamente si firmerà il decreto dal re e potremo contar giorni ed ore del sospirato sgombro» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 2, p. 111).

Quasi profetico, il senatore Torelli: il Senato, nonostante le numerose voci polemiche, il 9 dicembre 1864, infatti, approvò a sua volta il progetto di trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

La legge per Firenze capitale diveniva così definitiva; l’11 dicembre fu poi firmata da Vittorio Emanuele II e già il 15 successivo si poteva leggere sulla «Gazzetta» che «il n° 2032 della Raccolta ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno contiene la seguente legge: Vittorio Emanuele II, Per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia. Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulgato quanto segue: Art.1. La capitale del Regno sarà trasferita a Firenze entro sei mesi dalla data della presente Legge; Art. 2. Per le spese di trasferimento è aperto nella parte straordinaria del Bilancio dell’Interno, ed in apposito capitolo, un credito di L. 7.000.000 ripartito come segue: Esercizio 1864: L. 2.000.000; Esercizio1865: L. 5.000.000. I ministri dell’Interno, delle Finanze e dei Lavori pubblici sono specialmente incaricati della esecuzione della presente Legge. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo di Stato, sia inserita nella Raccolta officiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come Legge dello Stato. Dato a Torino, addì 11 dicembre 1864. Firmato: Vittorio Emanuele; A. La Marmora; A . Petitti; L. Torelli; S. Jacini; G. Natoli; G. Vacca; Q. Sella; G. Lanza» («Gazzetta del Regno d’Italia», 15 dicembre 1864, n. 296).

Come già per l’approvazione della Camera, anche in questo caso i toni del foglio cittadino il 13 dicembre erano enfatici: «la splendida votazione del Senato ha posto degnamente il suggello alla più solenne discussione che avesse mai il parlamento italiano, dacché fu proclamato il regno d’Italia»; tuttavia, conforme al comune sentire, l’arrivo della capitale era percepito non tanto come un successo locale quanto, soprattutto, quale risultato da iscriversi nel più ampio progetto del liberalismo italiano avviato poco più di un decennio prima dal conte di Cavour. In tal senso, nello stesso giorno, il giornale fiorentino notava che «accanto alla concordia degli animi [che aveva condotto all’approvazione della legge] ci vuole il senno di chi può farne pro e cavare dal trasferimento della Capitale il maggior utile possibile. [Infatti] v’hanno provvedimenti senza i quali il trasferimento della Capitale a Firenze non sarebbe quasi che un fatto infecondo […]. Due grandi atti – stigmatizzava il foglio fiorentino – devono compiersi [prima e dopo] il trasporto della Capitale: l’unificazione amministrativa e legislativa […] e un muta[mento] del sistema: se l’indirizzo governativo, se l’andamento burocratico rimangono gli stessi […] il trasporto della capitale sarebbe stato un disinganno».

Come dire che con l’arrivo della capitale a Firenze (sancito dalla legge n° 2032) i fiorentini (e non solo) si aspettavano l’avvio di una stagione di profondo rinnovamento e di ampia riorganizzazione dello Stato italiano.

Bibliografia di riferimento

  • R. Romanelli, L’Italia a Firenze, in Gli anni di Firenze, Roma-Bari, Laterza, 2013
  • A. Battaglia, La capitale contesa. Firenze, Roma e la Convenzione di settembre (1864), Roma, Nuova Cultura, 2013
  • R.P. Coppini, L’opera politica di Cambray-Digny, sindaco di Firenze Capitale e ministro delle finanze, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1975
  • S. Camerani, Cronache di Firenze Capitale, Firenze, Olschki, 1971
  • U. Pesci, Firenze Capitale (1865-1870) dagli appunti di un ex-cronista, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1904
  • M. Minghetti, La Convenzione di settembre. Un capitolo dei miei ricordi, Bologna, Zanichelli, 1899
  • Intorno alla convenzione Italo-Franca del 15 settembre 1864. Pensieri di un vecchio italiano torinese indirizzati specialmente ai membri del Parlamento italiano, Torino, Stamperia dell’Unione Tipografico-Editrice, 1864

Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato il 25 novembre 2014):

 

 


Come citare questo articolo: Antonio Chiavistelli, Dicembre 1864: una legge per Firenze Capitale, in "Portale Storia di Firenze", Dicembre 2014, https://www.storiadifirenze.org/?temadelmese=dicembre-1864-una-legge-per-firenze-capitale
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