Aprile 1018: la consacrazione del monastero di San Miniato al Monte

Immagine di copertina:

di Maria Pia Contessa (Università di Firenze)

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Veduta del complesso di San Miniato al Monte

Il complesso religioso di San Miniato al Monte, uno dei poli spirituali cui i fiorentini sono maggiormente legati, sta per compiere mille anni. Oggi il nome evoca prima di tutto la basilica, gioiello dell’arte romanica toscana collocato in una posizione particolarmente suggestiva da cui domina la città, ma il vero centro propulsore è rappresentato dal monastero. È risaputo che questo fu istituito all’inizio dell’XI secolo dal vescovo Ildebrando ma non vi è una consapevolezza diffusa su quale fu la sua effettiva importanza all’epoca, così come si ignora che il significato del santuario, specialmente nei secoli iniziali della sua storia, va al di là della sua bellezza e del valore artistico dei capolavori che vi sono conservati.

 

Ildebrando, titolare della cattedra episcopale dal 1008 al 1024 e fedele all’imperatore Enrico II, volle riportare in auge il culto per Miniato, il testimone della fede che una tradizione non suffragata da alcuna evidenza documentaria voleva caduto vittima delle persecuzioni di Decio alla metà del III secolo. Da tempo, infatti, la piccola chiesa od oratorio sulla collina a sud-est della città altomedievale, in cui anticamente le spoglie avevano trovato posto, versava in condizioni di abbandono e la devozione stessa per il martire si era affievolita fin quasi a scomparire. Il vescovo riportò alla luce i resti di Miniato e di alcuni compagni che con lui avevano condiviso il supplizio, li sistemò in un reliquiario entro un edificio dedicato al culto e li affidò alle cure di una comunità di monaci benedettini appositamente istituita.

 

Veduta della cripta di San Miniato al Monte

L’iniziativa potrebbe aver preso avvio nel 1014, quando Ildebrando ebbe l’occasione di incontrare personalmente il sovrano della dinastia sassone di passaggio nel territorio fiorentino. Quattro anni dopo, in una domenica di aprile del 1018, il presule riconobbe formalmente il cenobio e mise a disposizione dei religiosi un ricco patrimonio di beni e diritti dislocati quasi esclusivamente al di fuori del centro urbano. In quella occasione fu redatto un documento che rappresenta l’unica testimonianza utile per ricostruire la genesi di San Miniato. Nonostante la retorica ponga l’accento sul recupero della chiesa e del culto dedicati al martire, l’istituzione del monastero fu il vero obiettivo di Ildebrando. Egli seguì una tendenza che vedeva i vescovi farsi promotori di fondazioni monastiche, perlopiù suburbane, che li affiancassero nell’azione di tutela del patrimonio e del prestigio episcopale nonché nel riordino della vita religiosa delle diocesi.

 

 

San Miniato al Monte, il più antico monastero di fondazione vescovile a Firenze, si configurò fin dalle origini come un valido supporto agli affari e alla politica dell’episcopio che, all’epoca, rappresentava il principale punto di riferimento per tutti gli aspetti della vita cittadina. Dotato di cospicue risorse in molte località della campagna, esso concentrò la sua azione soprattutto in aree importanti per il controllo militare ed economico del territorio, come la media e bassa Val di Sieve e la zona di Ripoli, favorendo i legami fra le stirpi locali e la massima istituzione religiosa fiorentina, che reclutava la sua clientela soprattutto fra i proprietari rurali. Benché gli interessi dei cenobiti si concentrassero quasi esclusivamente nel contado, il monastero fu concepito come un polo religioso in grado di attrarre la società urbana. Ildebrando chiese al primo abate da lui stesso insediato, Drogo, di riscrivere il racconto del martirio di Miniato che circolava all’epoca in una versione risalente a svariati secoli prima. Con questa nuova stesura, arricchita di particolari evocativi delle origini cristiane di Firenze per associare più strettamente il santo alla collina dove riposavano le sue spoglie, si voleva accreditare il Monte come luogo di devozione speciale, nel quale la comunione dei fedeli con Dio era resa possibile dall’azione salvifica delle reliquie e dall’intercessione delle preghiere dei monaci.

 

 

Veduta di San Miniato al Monte in una incisione di inizio Ottocento (G. Silvestri, A. Verico, Vedute pittoresche della Toscana, Firenze, 1827)

San Miniato rimase legato al vescovado per alcuni secoli, in un rapporto particolarmente stretto. Il fondatore riservò la scelta degli abati a sé e ai suoi successori e questi ultimi difesero tenacemente tale prerogativa quando i monaci pretesero di arrogarsela. Fu proprio conservando nel tempo la facoltà di individuare i rettori che gli ordinari diocesani si assicurarono l’adesione del monastero alla loro politica. Uomini di fiducia dei vescovi, gli abati di San Miniato agivano a fianco di questi nelle questioni di interesse per la Chiesa locale. Si trattava quasi sempre di soggetti che ai necessari requisiti religiosi univano la capacità di destreggiarsi in affari anche molto complessi, che non si esaurivano nella gestione patrimoniale e nella direzione spirituale dell’ente affidato alle loro cure.

 

 

Mosaico della facciata di San Miniato rappresentante Cristo benedicente fra la Vergine e San Miniato

La storia del periodo più antico di San Miniato al Monte è stata a lungo condizionata dal giudizio negativo espresso dai biografi del più illustre monaco che il cenobio abbia mai accolto, Giovanni Gualberto. Secondo i più antichi autori vallombrosani – che scrissero verso la fine dell’XI secolo – egli avrebbe lasciato il monastero dopo avere appreso che il nuovo abate, Oberto, aveva ottenuto la carica in cambio di denaro, macchiandosi così di simonia nel pieno delle lotte per la riforma dei costumi del clero. Queste asserzioni, peraltro successive al celebre episodio di Settimo che sancì il trionfo dello stesso Gualberto, sono state ampiamente riprese dalla storiografia erudita, che non ha mancato di sottolineare anche le difficoltà in cui oggettivamente San Miniato venne a trovarsi nel corso del Duecento alimentando l’idea che già poco dopo la sua istituzione l’ente fosse in decadenza e vivesse in una condizione di isolamento entro una società in pieno fermento.

 

Al contrario, esso attraversò probabilmente il suo periodo di maggior splendore proprio in coincidenza con il rettorato di quell’Oberto bollato dai suoi detrattori come astuto e intrigante e più intento agli affari mondani che agli aspetti religiosi del suo mandato. Se davvero egli ottenne la carica abbaziale in cambio di denaro è questione che non trova conferme né smentite, certo però il giudizio dei Vallombrosani coglie in pieno i tratti peculiari della sua personalità. Ciò non autorizza a concludere che l’abate agisse spinto solamente dall’ambizione e dalla cupidigia. Egli governò San Miniato per circa quarant’anni, più o meno dalla metà degli anni trenta, in tempi molto difficili durante i quali ne accrebbe notevolmente le ricchezze e il prestigio, ne difese con successo i diritti e ottenne il riconoscimento e la protezione di vescovi, pontefici e sovrani. Nella cura del patrimonio, Oberto tracciò le principali linee di politica gestionale ispirando l’attività di amministrazione dei suoi successori. La sua sollecitudine non fu meno notevole per quel che riguarda la promozione culturale del cenobio, e anche in questo ambito produsse conseguenze importanti e durature.

 

Jacopo del Casentino (1297-1358), San Miniato martire e scene della sua vita. Basilica di San Miniato al Monte, Firenze

È infatti opinione corrente che la costruzione della chiesa attuale sia stata avviata da Ildebrando, al quale viene attribuita la paternità dell’intero progetto edilizio almeno dai tempi di Giovanni Villani. Alcuni indizi, invece, lasciano credere che il vescovo abbia concepito una struttura modesta, adeguata a custodire le reliquie, verosimilmente dotata di una cripta che fu completamente sostituita poco tempo dopo, quando prese avvio la fabbricazione della nuova chiesa. L’opera architettonica che oggi possiamo ammirare, pertanto, non rappresentò il proseguimento dei lavori cominciati dal fondatore ma nacque da un radicale ripensamento del progetto iniziale. Non sappiamo se l’idea sia da attribuire a Oberto o al vescovo in carica, Attone. È certo però che la realizzazione materiale di un fabbricato di pertinenza di un monastero era guidata dal rettore, che ne decideva tutti gli aspetti, dalla scelta del luogo alle maestranze, anticipando il ruolo che sarà poi affidato agli architetti. La costruzione della grandiosa basilica dedicata a Miniato rappresentò pertanto il potenziamento della propaganda ideologica a sostegno dell’autorità vescovile avviata a suo tempo da Ildebrando. Il nuovo edificio avrebbe sovrastato la città come una fortezza, mostrando a tutti la meta finale del percorso terreno verso la salvezza eterna e attirando devoti visitatori da ogni parte della diocesi.

 

 

L'aquila che ghermisce un torsello, simbolo dell'Arte di Calimala, sovrasta la facciata della chiesa

L’iniziativa ebbe significative ricadute sulla sfera religiosa, con ripercussioni di più vasta portata sociale. Nell’immediato contribuì probabilmente ad allontanare alcuni monaci da quel luogo oramai sovraffollato, che non garantiva più la semplicità dello stile di vita evocato dalla regola benedettina, per cercare il necessario raccoglimento nelle foreste del Pratomagno. Nel lungo periodo ebbe l’effetto di accentuare la sacralità di quell’ambiente e di accrescere la suggestione esercitata sui fedeli dall’intero complesso monumentale. Si creò, quindi, un ulteriore e più profondo legame fra San Miniato e i Fiorentini sopravvissuto nel tempo alla progressiva perdita di interesse per il culto specifico. Del completamento dei lavori si fecero carico i presuli e gli abati successivi, anche sollecitando la generosità – non del tutto disinteressata – dei notabili locali. Fra XII e XIII secolo l’Arte di Calimala, oramai rappresentativa del gruppo dirigente fiorentino, assunse il controllo sull’Opera della chiesa monastica. Il patronato acquisito dai mercanti si affiancò a quello che essi già detenevano sulla fabbrica del Battistero, certificando così l’importanza – innanzitutto simbolica – di entrambi gli edifici nella definizione della nuova identità cittadina.

 

 

Letture di approfondimento

  • Le carte del monastero di San Miniato al Monte (secoli IX-XII), a cura di L. Mosiici, Firenze, Olschki, 1990
  • G.W. Dameron, The Cult of St. Minias and the Struggle for Power in the Diocese of Florence, 1011-1018, «Journal of Medieval History», XIII (1987), n. 2, pp. 125-141
  • G. Tigler, San Miniato al Monte a Firenze, in Id., Toscana romanica, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 155-165
  • G. Ammannati, La scrittura dei notai fiorentini nei secoli X e XI. Con un excursus su due documenti del notaio Lamberto (S. Pier Maggiore, 1067 febbraio 27; S. Maria di Rosano, 1045 febbraio 18), «Medioevo e Rinascimento», XX n.s. (2009), pp. 33-70
  • M.P. Contessa, Monachesimo, istituzioni e società a Firenze nel pieno Medioevo. San Miniato al Monte e San Salvi fra XI e XIII secolo (primi decenni), Tesi di dottorato in Storia medievale, Università di Firenze, 2013.

Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato il 1° aprile 2013):