16 settembre 1327: Cecco d’Ascoli viene arso sul rogo

di Piero Gualtieri (Firenze)

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Immagine dell’Avarizia, miniatura dell’Acerba. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Manoscritto 40-52

Non sappiamo quali pensieri si siano affollati nella mente di Cecco quel 16 settembre 1327 durante il suo ultimo viaggio fra il convento di Santa Croce e il greto dell’Arno nei pressi della Porta alla Croce, dove lo attendeva la pira per l’esecuzione. Certo è che pochi giorni prima, condotto di fronte all’inquisitore francescano Accursio Bonfantini, al vescovo di Arezzo Boso degli Ubertini e al legato papale per il giudizio sull’ortodossia della sua dottrina, egli aveva riaffermato con coraggio e senza tentennamenti le proprie convinzioni sull’influenza decisiva degli astri nelle cose umane, forse convinto di aver ‘letto’ nelle stelle la propria liberazione; o che magari fosse comunque inutile opporsi a quanto da esse ‘decretato’.

 

Francesco di Simone Stabili, meglio conosciuto appunto come Cecco d’Ascoli, era giunto a Firenze con ogni probabilità agli inizi di quello stesso 1327, chiamato in città dal duca Carlo di Calabria che dal gennaio del 1326 ne reggeva le sorti. Cecco era un personaggio assai noto, fra gli intellettuali e gli uomini di cultura del tempo così come fra il popolino, ma anche estremamente controverso. Per alcuni anni aveva insegnato medicina presso l’Università di Bologna, accreditando la propria fama di astrologo e componendo alcune delle sue opere principali (Tractatus in sphaeram; De principiis astrologiae), ma nel 1324 i suoi scritti erano stati condannati per eresia dall’inquisitore, il frate domenicano Lamberto da Cingoli, che ne aveva proibito la circolazione. Per Cecco studiare gli astri significava studiare le forze che regolano la vita dell’universo: dipendono dalle stelle la nascita e la diffusione delle malattie (da qui il nesso fondamentale fra pratica medica e astrologia); attraverso la lettura del loro corso è possibile intercettare e interrogare quei demoni che abitualmente percorrono la terra, piegandoli entro certi limiti al proprio volere. Ogni cosa è sottoposta all’influsso della sfera celeste:  anche la stessa venuta del Cristo ha di fatto soggiaciuto all’azione determinante degli astri, che ne hanno condizionato implicitamente le scelte (fatto che, unitamente alla previsione della prossima venuta dell’Anticristo, non poteva risultare accettabile alla Chiesa). Per questo colui che è in grado di leggere correttamente i segni scritti nel cielo – come Cecco – è in grado di conoscere (conoscere: non cambiare) ciò che riserva il futuro.

 

Edoardo Camilli, Monumento a Cecco d’Ascoli, 1922. Ascoli Piceno, Piazza Matteotti

Tale autoproclamata capacità, e probabilmente la stessa sentenza di condanna dell’inquisitore bolognese, rappresentò per Cecco un mezzo di promozione decisivo. Fu dunque con la fama di uomo estremamente dotto nella «scienza d’astronomia, overo di nigromanzia», per usare l’espressione di Giovanni Villani, capace di predire «molte cose future, le quali si trovarono poi vere», che lo Stabili si presentò a Carlo di Calabria, ed è anzi sicuro che siano state proprio le sue capacità ‘divinatorie’ – in un periodo di forti incertezze dovute alla guerra con Castruccio Castracani – a meritargli l’incarico presso la corte fiorentina. La sua presenza al fianco del rampollo di casa d’Angiò, paladina del guelfismo e della Chiesa, non poteva tuttavia non generare imbarazzi (il cancelliere del duca, fra Raimondo vescovo di Aversa, fu tra i dignitari a lui più ostili), e nel marzo del 1327, circa quattro mesi dopo il suo arrivo a corte, Carlo lo nominò proprio medico personale.

 

Lungi dallo smorzare eventuali malumori, la nuova qualifica servì forse invece a rinfocolare attriti e tensioni che avevano accompagnato in crescendo l’attività di Cecco. Sembra, in particolare, che la mossa di Carlo provocasse le ire di Dino del Garbo, celebre medico fiorentino che aspirava anch’egli a ricoprire quel ruolo. Nel delinearne rapidamente il carattere Villani definisce del resto lo Stabili come un «uomo vano e di mondana vita», sottolineando alcuni tratti della sua personalità che certo giocarono un ruolo non secondario nelle vicende di quegli anni. A prescindere dal giudizio tributato alle sue idee egli si attirò infatti ostilità e vere e proprie inimicizie per alcuni apprezzamenti contenuti nei suoi scritti. Celeberrimo è il giudizio sprezzante che, nell’Acerba, sua opera più famosa, egli riservò a Dante, colpevole di cantare «come le rane […] immaginando cose vane».

Senza dubbio meno celebri, ma potenzialmente assai più pericolose, sono invece le accuse di sodomia con cui Cecco liquidò il padre e il nonno dell’inquisitore fra Accursio (che la tradizione per di più accredita quale primo ‘lettore pubblico’ di Dante). A ciò si aggiunga che la classe dirigente fiorentina prese ad attribuire alle ‘caute’ previsioni dell’astrologo ascolano l’immobilismo di Carlo nella lotta con Castruccio e Ludovico il Bavaro e si avrà un quadro completo delle tensioni cui Cecco dovette far fronte nei suoi ultimi mesi. Alla luce di tali elementi, l’imprigionamento ad opera dell’inquisitore nel luglio del 1327 ci appare allora in ultima analisi quasi una conclusione inevitabile.

In ogni caso, quali che siano state le ragioni – oltre a quelle strettamente dottrinali – che portarono alla sua definitiva condanna per eresia, Cecco pagò il prezzo più alto.

 

Letture di approfondimento:

  • R. Davidsohn,  Storia di Firenze, Firenze, Sansoni, 1956-1965, vol. IV, pp. 1075-1079; 1113-1116.

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