Maggio 1865: Firenze capitale e l’Italia celebrano Dante a 600 anni dalla nascita

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Veduta della Piazza di Santa Croce in Firenze nel giorno 14 maggio 1865 in cui veniva inaugurata la statua a Danta Alighieri da S.M. Vittorio Emanuele II Re d’Italia commemorando il Sesto Centenario del Divino Poeta. Litografia presso il Museo Centrale del Risorgimento



di Fulvio Conti (Università di Firenze)

 

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Si può tranquillamente affermare che le celebrazioni dantesche del 1865 a Firenze, da pochi mesi scelta come nuova capitale, siano state la prima grande festa nazionale del Regno. Del resto, proprio in questi termini – «la prima festa nazionale della nostra rigenerazione» – l’aveva concepita la torinese «Rivista contemporanea», allorché nel 1859, prendendo spunto dalle manifestazioni tedesche promosse nel novembre di quell’anno per celebrare il centenario di Schiller, aveva lanciato l’idea che una simile iniziativa fosse organizzata per Dante nel 1865.

Vale la pena di rileggere le parole con cui Gustavo Strafforello, erudito e poligrafo ligure, lanciò sulla rivista torinese la proposta del centenario dantesco. V’era un uomo, scriveva con prosa enfatica, «che fu cittadino più forte, che fu poeta maggiore le mille volte di Schiller, un uomo che pugnò con la spada e con la penna, più che non Schiller per la tedesca, per l’unità della gran patria italiana, un uomo che durante il lungo obbrobrio della nostra servitù, fu la redenzione morale della misera patria nostra, un uomo – no, un eroe, un semidio, un miracolo dell’umana natura, un orgoglio dell’uman genere: Dante Alighieri! E quali onori gli abbiam noi resi finora? Dove sono le testimonianze della nostra riconoscenza? Dove le statue che dovrebbero ornare le piazze di tutte le città italiane? Dove i monumenti? Dove le feste secolari? Oh rossore! L’Italia è sempre quella matrigna che fu Firenze al maggior de’ suoi figli! Italiani! Fra cinque anni sarà il sesto centenario della nascita di Dante; fra cinque anni sarà compiuta l’unità della patria. Italiani! Io propongo che la prima festa nazionale della nostra rigenerazione sia un’ammenda onorevole, sia la Festa secolare di Dante Alighieri».

«Nulla di simile a quella celebrazione – ha osservato Carlo Dionisotti – si era mai visto prima in Italia, né si vide poi». In effetti i festeggiamenti coinvolsero in contemporanea tutte le principali città italiane, anche quelle, come venne enfaticamente sottolineato nei resoconti a stampa e nei discorsi ufficiali, che ancora si trovavano sotto il dominio austriaco oppure, come Roma, sotto quello pontificio. Anche sotto questo profilo Dante si prestava bene a incarnare il simbolo dell’italianità. Nel suo peregrinare in esilio aveva soggiornato in molte di quelle città, che adesso gli rendevano omaggio come una delle pochissime icone capaci di coniugare l’identità municipale con il sentimento di appartenenza alla comunità nazionale.

Tutte le celebrazioni, compresa quella fiorentina, furono frutto di iniziative locali promosse dai municipi, dalle associazioni culturali e da appositi comitati costituiti in quella circostanza. Fu pubblicato anche un «Giornale del centenario di Dante Alighieri», il cui primo numero apparve a Firenze il 10 febbraio 1864, che dette puntuale notizia di tutte le manifestazioni (l’ultimo numero uscì il 31 dicembre 1865). Oltre ad esso uscì un foglio che, nel solco della tradizione pedagogica toscana, fu specificamente destinato alle classi popolari. S’intitolava «La festa di Dante. Letture domenicali del popolo italiano», e si pubblicò dal 1° maggio 1864 all’11 giugno 1865. L’anno dantesco del 1865, come ha scritto Erminia Irace, fu dunque «un evento gestito “dal basso”, dalle città. Non fu, cioè, promosso né sollecitato più di tanto dai vertici dello Stato, che sembrarono piuttosto accodarsi al nugolo delle iniziative locali». La pedagogia patriottica non era in cima all’agenda di governo dei moderati, i quali guardavano con diffidenza alle manifestazioni pubbliche che prevedessero un robusto coinvolgimento popolare, e più che a «fare gli Italiani» si dedicarono a «costruire lo Stato».

Il re Vittorio Emanuele II, che pure la retorica di quei giorni presentò come il «gran Veltro» profetizzato nella Divina Commedia, intervenne a una sola cerimonia, la più importante, quella che si svolse a Firenze il 14 maggio 1865 e lo vide scoprire in piazza Santa Croce la grande statua di Dante, opera dello scultore Enrico Pazzi. Del quale merita forse di essere evidenziato un dato poco conosciuto, e cioè che egli apparteneva alla più importante loggia massonica fiorentina, la Concordia, ove era stato iniziato il 24 ottobre 1861.

La statua collocata di fronte alla basilica di Santa Croce, se da un lato rappresentò il necessario segno di espiazione dei fiorentini per l’esilio inflitto al poeta, dall’altro si caricò subito di una forte valenza simbolica: il «poeta della patria», il simbolo vivente del riscatto nazionale, introduceva alla chiesa, ormai consacrata come tempio delle glorie italiane, che pochi anni dopo, nel 1871, avrebbe accolto le ceneri di Ugo Foscolo.

La discussione su come dare il giusto tributo monumentale al «divin poeta» era stata lunga e animata. Com’è noto, un cenotafio dantesco, disegnato dall’architetto Luigi Cambray-Digny e realizzato dallo scultore Stefano Ricci, era stato inaugurato in Santa Croce nel 1830. Promosso nel 1818 da un comitato di illustri notabili fiorentini, aveva ispirato il canto Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, dedicato a Vincenzo Monti, con cui Leopardi aveva manifestato la propria accorata adesione all’iniziativa.

Per la verità in quegli anni, prima che la scelta cadesse sul monumento funebre in Santa Croce, circolarono anche progetti più ambiziosi. L’architetto del Comune Giuseppe del Rosso, convinto che l’omaggio della città al divin poeta dovesse superare tutto «ciò che altra Nazione moderna avesse fatto per eternare i sommi Uomini che le appartengono», propose che si erigesse a Firenze «un vago portico a imitazione di altri inalzati in Roma» (quelli di Antonino Pio, di Ottavia, di Livia) e venisse chiamato «portico di Dante». Questa gli sembrava una sede realmente adeguata per accogliere il gruppo marmoreo raffigurante l’apoteosi del poeta, che sarebbe stato circondato da bassorilievi e da statue evocanti episodi della sua vita e della Commedia.

Lo stesso Del Rosso presentò anche un secondo progetto, meno dispendioso del primo e realizzabile in minor tempo. Esso prevedeva lo sfondamento dell’arco di mezzo della Loggia dell’Orcagna, la «più maestosa loggia del mondo», per ricavarvi una grande tribuna semicircolare. In fondo alla tribuna, secondo gli auspici dell’architetto, sarebbe stata collocata la statua di Dante, posta in posizione dominante e attorniata da «altre quattro statue esprimenti per modo di esempio la Teologia, la Filosofia, la Poesia, l’Eloquenza, o altre virtù morali, e speculative, le quali si credessero più adattate, e allusive a caratterizzare la sublimità, e religiosità del Divino Cantore». Nel 1842 una statua di Dante in marmo, opera dello scultore livornese Paolo Emilio Demi, fu compresa fra le ventotto che andarono a ornare il loggiato vasariano degli Uffizi. Dedicate ai personaggi illustri della Toscana, dovevano rappresentare «una sorta di pantheon a cielo aperto».

L’idea di un robusto intervento architettonico sulla Loggia d’Orcagna, che doveva essere prolungata fino a distendersi lungo tutta la piazza della Signoria, venne riproposta nel 1860 da un’associazione di cittadini presieduta dal principe Ferdinando Strozzi, di cui facevano parte, tra gli altri, Atto Vannucci, Carlo Lorenzini, Giuseppe Barellai e Francesco Dall’Ongaro. Essi si fecero promotori di una lussuosa edizione nazionale di tutte le opere di Dante Alighieri, con il cui ricavato intendevano finanziare i lavori per l’estensione della loggia (un progetto, a loro dire, che era stato concepito già da Michelangelo) e per la trasformazione della piazza in un «Panteon italiano» con Dante come corifeo. I promotori dell’iniziativa speravano di ricavare dalla vendita dell’edizione nazionale i capitali necessari per istituire anche le «Feste di Dante», «feste puramente civili» che a cominciare dal maggio 1865 si sarebbero celebrate ogni cinque anni per promuovere le scienze, le lettere e le arti italiane.

Il progetto naturalmente restò sulla carta, così come si rivelarono irrealizzabili l’idea di un «Panteon isolato» da costruirsi sul lato occidentale di piazza della Signoria, di fronte a Palazzo Vecchio, e quella di un tempio da innalzarsi sulla spianata del Forte di Belvedere, alla sommità del Giardino di Boboli: suggestivo vagheggiamento di una sorta d’Acropoli, destinata ad alimentare il mito di Firenze come Atene d’Italia.

Alla fine il solo omaggio di natura architettonica e monumentale realizzato a Firenze nel 1865 fu la statua di Enrico Pazzi, la quale, è bene ricordarlo, rappresentò una soluzione di ripiego. L’opera, infatti, era stata commissionata allo scultore nel 1856 dal Municipio di Ravenna, ma il governo pontificio, una volta visto il bozzetto, raffigurante il poeta corrucciato che pronunciava la famosa invettiva «Ahi, serva Italia di dolore ostello», ne aveva proibito l’esecuzione. Alla scelta di destinarla a Firenze si era poi giunti nel 1861 per iniziativa di una Società promotrice che, inizialmente composta di alcune illustri personalità della Toscana (Capponi, Ricasoli, Vieusseux, Aleardi, Le Monnier), si era poi allargata fino a comprendere numerose figure del mondo politico e intellettuale italiano (Minghetti, d’Azeglio, Sella, Bixio, insieme a Manzoni, Verdi, Villari e Carducci).

Una volta decisa la collocazione del monumento di Pazzi in piazza Santa Croce, non mancò chi, ritenendo la scelta inadeguata, avanzò l’ennesimo progetto di un tempio in cui accogliere la statua e rendere così il dovuto omaggio alla grandezza di Dante, emblema riconosciuto dell’appena raggiunta Unità nazionale. Questa volta a presentarlo fu l’architetto Antonio Corazzi, il quale per la sua realizzazione non esitò a ipotizzare la demolizione del quattrocentesco Palazzo Cocchi Serristori che sorge sul lato della piazza opposto alla basilica.

Le celebrazioni del 1865, infine, offrirono il pretesto al Municipio fiorentino per tornare alla carica con quello di Ravenna e chiedere ancora una volta la restituzione delle ceneri del poeta. L’istanza venne ufficializzata in una delibera del Consiglio comunale di Firenze del maggio 1864, con la quale, considerando che «il sacro deposito delle ossa di Dante Allighieri [sic] in Ravenna [era] a un tempo stesso testimonianza e perpetuazione dello iniquo esilio patito dal massimo cittadino», si inoltrava preghiera alla città romagnola affinché sanasse «quel permanente effetto di un torto avito». Qualora l’istanza fosse stata accolta si ipotizzò che i resti di Dante fossero tumulati non già in Santa Croce, nel «freddo e macchinoso sepolcro del Ricci», bensì «nel suo bel San Giovanni», il Battistero, e si lasciò correre la fantasia immaginando «che cosa sarebbe mai stata una processione che accompagnasse l’urna ineffabilmente venerata». Qualcuno si spinse perfino a pensare di costruire «un grand’arco», una specie di arco trionfale, «fuori di quella porta della Città per dove entrerebbe il carro portatore del sacro deposito».

I ravennati opposero però il solito rifiuto, motivandolo questa volta con il fatto che Ravenna non poteva più, «pei destini felicemente mutati d’Italia, considerarsi come perpetuazione d’esilio, una essendo la legge che raccoglie[va] con duraturo vincolo tutte le Città italiane». Oscurata dalle cerimonie fiorentine, Ravenna ebbe modo di catalizzare l’attenzione del Paese grazie alla fortuita scoperta, durante i lavori di risistemazione dell’area adiacente alla tomba, da tempo inglobata nelle strutture cimiteriali della chiesa dei francescani, di una cassetta lignea contenente le ossa Dantis. Il rinvenimento ebbe un’eco enorme sulla stampa italiana e internazionale e impose alle autorità il dovere di verificare se lo scheletro apparteneva veramente a Dante oppure no. Il responso, pronunciato da una commissione di esperti nominata dal ministero della Pubblica Istruzione, fu ovviamente positivo. Subito dopo si provvide all’ostensione al pubblico dello scheletro ricomposto di Dante, che, prima di essere definitivamente ricollocato nella tomba settecentesca, venne esposto in un sarcofago di cristallo e venerato come la reliquia di un santo laico. Ebbene, della commissione ministeriale faceva parte Atto Vannucci, titolare della cattedra dantesca presso l’Istituto di Studi superiori di Firenze, a cui fu affidato l’incarico di stendere la relazione finale. Come ha opportunamente sottolineato Erminia Irace, l’autore di un best seller come i Martiri della libertà italiana, era certo «uno dei migliori che la piazza letteraria allora offrisse in materia di canonizzazione di grandi uomini in chiave risorgimentale».

 

Bibliografia di riferimento

 

  • G.M. Cazzaniga, Dante profeta dell’Unità d’Italia, in Storia d’Italia. Annali 25. L’esoterismo, a cura di Id., Torino, Einaudi, 2010, pp. 457-475
  • C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, «Rivista storica italiana», LXXVIII (1966), pp. 544-583, poi in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1999 (prima ed. 1967), pp. 255-303
  • L. Fournier, Le culte de Dante dans l’Italie postunitaire, in Dante et ses lecteurs (du Moyen age au XXe siècle), Textes réunis et présentées par Henriette Levillain, Poitiers, La Licorne, 2001, pp. 65-77
  • E. Irace, Itale glorie, Bologna, Il Mulino, 2003
  • E. Querci (a cura di), Dante vittorioso. Il mito di Dante nell’Ottocento, Torino-Londra-Venezia-New York, Umberto Allemandi & C., 2011
  • T. Schulze, Dante Alighieri als nationales Symbol Italiens (1793-1915), Tübingen, Max Niemeyer, 2005
  • B. Tobia, La statuaria dantesca nell’Italia liberale: tradizione, identità e culto nazionale, «Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Méditerranée», t. 109, 1997, n. 1, pp. 75-87

 

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